La sostenibilità nel campo della moda è un tema di grande attualità e la conferma risiede nel crescente interesse dei consumatori rispetto all’origine e al percorso dei prodotti che acquistano in negozio. Uno dei libri che per primi trattarono questo argomento, cioè di come e dove fossero composti i prodotti del cosiddetto “fast fashion” è stato “Fashionopolis” di Dana Thomas che ad ad oggi si trova purtroppo solo in lingua originale. L’autrice ha viaggiato in tutto il mondo, compresi in luoghi pericolosi come il Rana Plaza in Bangladesh dove nel 2013, a seguito di un cedimento strutturale di un edificio, morirono migliaia di lavoratori impiegati nelle fabbriche tessili che rifornivano dei noti marchi di moda low cost.
Dana Thomas ha indagato a fondo la il mondo della produzione del fast fashion, chiedendosi come sia possibile per noi pagare così poco per dei vestiti che in media ci troviamo ad indossare sette volte. Il prezzo dei tessuti non è cambiato così tanto nel tempo: quello che è cambiata è la retribuzione dei dipendenti di queste industrie che spesso sono dislocate in paesi del terzo mondo e non danno informazioni all’Europa sulle condizioni di sicurezza degli impiegati. Inoltre, la coltivazione di molti dei tessuti impiegati (ad esempio il cotone: richiede un consumo di acqua enorme) non è organizzata in maniera sostenibile per l’ambiente, e molti di questi prodotti non possono neanche essere riciclati. Insomma, il ciclo di vita di un prodotto del fast fashion ha diversi aspetti negativi, si ripercuote in termini di vite umane, inquinamento delle acque e del nostro cibo. Cominciare a studiare il processo produttivo, comprendere quanto è giusto pagare un capo e che tipo di qualità aspettarsi è una primo passo verso una consapevolezza che dovrebbe entrare a far parte della nostra quotidianità.
Cosa fare quindi?
La soluzione migliore sarebbe ovviamente comprare solamente capi sostenibili ed etici che ultimamente sempre più aziende stanno iniziando a produrre. E l’etichetta “made in Italy” non è neanche più una garanzia assoluta dell’eticità del processo produttivo: accade molto spesso che aziende italiane producano in paesi con leggi sul lavoro di molto peggiori delle nostre, predisponendo che l’ultimo stadio della produzione sia fatto in Italia: questo è sufficiente, per la legge italiana, per definire un capo “made in Italy”. Quindi, prima di comprare un capo, è importante non fermarsi alle prime informazioni, a volte volutamente fuorvianti. Lo sforzo a volte è notevole, a volte si riduce ad un giro su internet. Ovviamente nessuno pretende che nessuno compri più nelle centinaia di catene low cost: un capo sostenibile, sia per la migliore qualità dei tessuti che lo compongono, sia per l’aspetto di retribuzione della manodopera, ha costi chiaramente maggiori di uno dei fast fashion. Possiamo però diventare compratori consapevoli: la conoscenza di questo mondo parallelo legato a ciò che finisce nei nostri negozi determina una selezione dei prodotti che a volte compriamo sotto la spinta di un impeto compulsivo che ha origini nel modello capitalistico nel quale viviamo. Quindi cosa possiamo fare, a parte ridurre il più possibile la frequentazioni delle grandi catene? Comprare meno capi, sicuramente, e più adatti al nostro stile, in modo da utilizzarli più spesso senza stancarci. Le più grandi personalità del mondo della moda non cambiano stile quasi mai, riproponendo di volta in volta quella che Miuccia Prada chiama “divisa” che per lei si compone da un maglione da uomo, gonna e mocassini.
Comprare meno, quindi, e meglio: meno cose ma più durevoli è un principio che ha portato molti capi dei nostri nonni e genitori, ancora intatti, fino a noi; un buon capospalla che non segue la moda del momento è un investimento anche per il futuro. I negozi vintage sono una buona alternativa se non si vuole spendere molto: i vestiti cosiddetti “pre- loved” sono sostenibili per definizione, comprandoli non stiamo mettendo in circolo nuovi tessuti ma ne stiamo riutilizzando una parte salvandoli da un destino che spesso e volentieri non meritano. Ciò che scoraggia dei negozi vintage è sicuramente il lento processo di ricerca delle taglie, che ovviamente non è così immediato come nelle grandi catene: avere un sarto di fiducia per piccoli aggiustamenti può aiutare a non limitarsi negli acquisti. Quindi via libera a mercatini, negozi vintage, siti come Depop e Vestiare che incentivano il riutilizzo e non immettono poliestere nell’ambiente! Cerchiamo di essere consumatori il più possibile consapevoli, utilizzando internet a nostro vantaggio e tentando di evitare i condizionamenti pubblicitari che ci trasformano in consumatori compulsivi. Ne guadagneremo in termini economici, pratici, e anche il nostro guardaroba ne uscirà migliorato.